Il cinema? Un fantasma che non fa paura
Il sistema distributivo italiano, come ben sappiamo, chiude verso metà giugno per riaprire poi a settembre, immettendo sul mercato alcune novità provenienti dalla Mostra del Cinema di Venezia e dal circuito americano. I mesi estivi rappresentano un’autentica tragedia per cinéphiles e addetti ai lavori (ma anche per un pubblico solo sufficientemente educato alla visione cinematografica). Se è vero che vengono tirati fuori dai magazzini anche alcuni titoli d’autore finiti nell’oblio, nella stragrande maggioranza dei casi sono portati sui grandi schermi lungometraggi che nell’oblio dovrebbero rimanere, per legge.
Prendiamo il caso de La spina del diavolo, lavoro girato dal regista Guillermo del Toro, nel lontano 2001. Primo punto: ci chiediamo che senso abbia dal punto di vista commerciale riesumare un titolo morto e sepolto per lanciarlo nel circuito estivo in modo del tutto scriteriato (ma forse non è così). Sicuramente, infatti, è un’opera venduta in qualche pacchetto, tutto compreso, e che gli esercenti sono costretti a proiettare per obblighi contrattuali.
Secondo punto: si tratta di una pellicola che potremmo definire, con immensa bonarietà, superflua. E’ in sostanza un progetto sbagliato nella sostanza contenutistica e nella sua elaborazione registico/estetica. La vicenda è basata su un impianto narrativo di una prevedibilità sconcertante. Non si comprende esattamente la natura del racconto: una sorta di western-horror europeo di rara approssimazione.
I personaggi si muovono in modo meccanico e parlano in modo aulico quanto palesemente banale. Dialoghi scontati, atmosfera narrativa senza carattere. La parte “fantasmatica” è orrida nel vero senso della parola, sia narrativamente che visivamente, e non si capisce bene il perché questo fantasioso, quanto mediocre, racconto sia stato ambientato durante la guerra civile spagnola. I riferimenti politici sono penosamente appiccicati alla trama, senza nessun tipo di contestualizzazione che possa giustificare una simile scelta narrativa.
Stendiamo un velo pietoso sulla morale di fondo: la smania di possesso rende gli uomini cattivi. Passiamo alla parte formale. La regia è prevedibile e senza spessore. La fotografia è sempre calda, troppo calda, inutilmente calda. Tutto è rossastro e marroncino in questo film. Risultato? Una monotonia visuale stancante, deprimente. E poi “l’effetto fantasma”: non giudicabile. Gli attori cercano di fare quello che possono ma gli esisti sono praticamente catastrofici e così anche l’almodovariana Marisa Paredes finisce per perdersi in questo magma senza forma.
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